Lavoro, prolungato il blocco dei licenziamenti al 31/03 ma non in tutti i casi...

07 gennaio 2021

Un focus approfondito anche sulla nuova modalità di lavoro: lo smart working

L'emergenza economica va di pari passo a quella sanitaria. Il Paese già paga un prezzo alto per le chiusure disposte a partire da marzo e continuate nei mesi successivi sotto varie forme. Nemmeno la pausa natalizia, infatti, ha concesso un minimo di respiro all’economia, complice la persistenza delle limitazioni per contenere il contagio. E i dati forniti da Istat sul fronte occupazione non sono confortanti: 2 milioni e quasi 500 italiani sono disoccupati. A questi vanno associati anche gli inattivi ovvero coloro che hanno rinunciato a cercare un’occupazione. Un quadro a dir poco fosco che ha richieste provvedimenti eccezionali dal governo.

Una delle misure adottate per far fronte al problema è stato il blocco dei licenziamenti, previsto originariamente dal Decreto Cura Italia per 60 giorni e prolungato fino alla data del 31 marzo 2021. È quindi vietato avviare procedure di licenziamento collettivo (disciplinato dalla Legge n.223/1991), concludere procedure di licenziamento collettivo post 23 febbraio 2020, avviare licenziamenti plurimi o individuali per giustificato motivo oggettivo, avviare procedure di conciliazione obbligatoria.

I casi di licenziamento ancora ammessi

Al netto dei casi di rescissione consensuale o dimissioni per giusta causa (ad esempio per reiterati mancati pagamenti) che possono dare adito a successive azioni in via stragiudiziale, ci sono delle fattispecie nelle quali è consentito procedere al licenziamento. A poter essere licenziati sono i lavoratori che hanno contratti più irregolari o flessibili, come quelli di apprendistato, quelli di lavoro domestico. Ciò denota il persistere di una sperequazione tra lavoratori più garantiti e altri quasi senza protezioni; sono anche questi ultimi i lavoratori che non hanno, di solito, associazioni o enti di tutela della propria professione. Ad ogni modo sono ancora possibili i licenziamenti per inidoneità alle mansioni o per motivi disciplinari.

Ulteriori preclusioni al blocco sono i licenziamenti successivi alla cessazione dell’attività, conseguenti al fallimento della stessa o in seguito ad un preciso accordo tra azienda e lavoratori che, proprio perché sottoscritto dai lavoratori stessi, deve prevedere delle garanzie in uscita.

Quando e come impugnare il licenziamento

Il lavoratore, tuttavia, può impugnare il licenziamento, affidando il suo caso al sindacato oppure a un avvocato che predisporrà tutti gli atti da presentare per opporsi alla decisione. Lo disciplina l’articolo 6 della Legge n. 604/1966, che, anche nel richiamo al ruolo del sindaco nell’organizzazione socioeconomica, è influenzata dalla temperie di allora che oggi è quasi fuori dal tempo vista la proliferazione di contratti atipici o flessibili.

C’è un termine temporale preciso: il provvedimento dev’essere impugnato entro e non oltre i 60 giorni dalla ricezione della sua comunicazione. Si precisa inoltre che “L’impugnazione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di centottanta giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato, ferma restando la possibilità di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso. Qualora la conciliazione o l’arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l’accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo”.

Interessante in tal senso la sentenza del Tribunale del Lavoro di Milano ovvero la n.1638 del 14 ottobre 2020. “Il Tribunale del lavoro di Milano – si legge – ha stabilito che la sospensione dei termini durante il periodo emergenziale (Covid-19) si applica anche al termine decadenziale di 60 giorni per l’impugnazione stragiudiziale del licenziamento in quanto detta impugnazione deve ritenersi strettamente collegata al successivo termine di 180 giorni per il deposito del ricorso in via giudiziale”.

Smart Working, controllo e licenziamento

Il lavoro è mutato molto negli ultimi mesi. Le restrizioni hanno svuotato uffici e aziende forzando, è il caso di dirlo, la transizione allo smart working, implementato a cominciare dalla pubblica amministrazione.

Giova ricordare che lo smart working (che abbiamo analizzato sul versante del diritto alla disconnessione non menzionato nell’ordinamento italiano) non comporta un nuovo contratto di lavoro. Si tratta di una modalità differente di svolgimento dello stesso, rimanda quindi al contratto di lavoro stipulato ma viene attivata comunque solo e soltanto in seguito ad un accordo particolare che stabilisca mansioni, orari, tempi e luoghi di esecuzione delle mansioni.

La normativa, vista la recente implementazione, è ancora fumosa e meriterebbe un chiarimento ulteriore da parte del Legislatore ma ci sono delle indicazioni utili sia per il lavoratore sia per il datore. Dopo il Jobs Act, per esempio, il datore di lavoro può attivare degli strumenti di controllo remoto per verificare sullo svolgimento delle mansioni assegnate (questo ha segnato un’evoluzione rispetto alla Legge 300 del 1970 che all’art.4 vietava questi sistemi).

La legge 81/2017, che è stata l'apripista dello smart working, ha spiegato inoltre che il licenziamento può avvenire, anche quanto attivata questa modalità di lavoro, in modo immediato e senza preavviso in caso in cui vi sia un giustificato motivo oggettivo, al contrario rimangono valide le regole previste all'interno del contratto (anche per l’impugnazione), con una comunicazione scritta e un preavviso di 30 giorni che diventano 60 nel caso di un dipendente con disabilità.

Lo Studio Marinari è disponibile a fornire una consulenza professionale completa per analizzare al meglio i casi di licenziamento e per stabilire una precisa e lineare strategia di azione.

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